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PERCHE' NON DOBBIAMO USCIRE DALL'EURO



Sempre più di frequente la moneta unica è presa di mira da movimenti demagogici ed irresponsabili che con pressappochismo mirano a cavalcare il malcontento dei cittadini. Si diffonde quindi, e purtroppo non solo tra la gente comune, l'idea del ritorno alle valute nazionali come unico modo per risolvere la crisi. Alle prossime elezioni per il Parlamento Europeo, il 25 maggio, qui in Italia avremo due partiti, la Lega Nord e Fratelli d'Italia, apertamente contrari alla permanenza nell'area euro (sperano con questa mossa di riuscire a raggiungere la soglia di sbarramento del 4%, al momento fuori dalla loro portata) e il Movimento 5 Stelle, la cui posizione nei confronti dell'euro è (volutamente) ambigua. Ma che cosa succederebbe nel caso in cui malauguratamente l'Italia abbandonasse l'euro e tornasse alla lira? 134

Sui mercati valutari con tutta probabilità la rinata lira si deprezzerebbe (previsioni parlano del 30-40%) rispetto alle altre monete. Ora, molti fautori dell'uscita dall'euro sostengono che la svalutazione della lira ridarebbe fiato alle nostre esportazioni (tanto per spiegare il meccanismo, se 1 $ vale 2000 lire e la lira viene svalutata del 50% un prodotto italiano che costa 10000 lire in America non costerà più 5 $, ma 2,5) e ridurrebbe in termini reali il debito pubblico quotato in lire, mentre lo Stato potrebbe finanziare la spesa pubblica in deficit (cioé con uscite superiori alle entrate) stampando moneta. Questo ragionamento non tiene conto di alcune cose: 


  1. l'inflazione e il suo impatto sui consumi interni. E' l'aumento generalizzato dei prezzi. Nel caso di una svalutazione della lira essa si manifesterebbe in tutta la sua gravità in quanto l'Italia è un Paese fondamentalmente povero di materie prime, che deve importare quasi tutto dall'estero (compresi petrolio, gas naturale, ecc...). Dovendole pagare in valuta estera (prevalentemente in dollari) queste materie prime costerebbero in lire più di quanto sono costate finora in euro, determinando quindi un consistente aumento dei prezzi, quantificabile in un tasso a due cifre (per un confronto con la situazione del 1992, in cui la svalutazione della lira non provocò una fiammata inflazionistica, si legga la conclusione) . Ovviamente, i ceti meno abbienti ne pagherebbero le conseguenze, in particolare le categorie sociali a reddito fisso, che subirebbero una notevole riduzione del potere di acquisto dei loro già magri stipendi. Questo tra l'altro comporterebbe un'ulteriore consistente contrazione dei consumi interni, in parte anche per mancanza di fiducia, e una corsa all'accaparramento di beni rifugio. In considerazione dell'elevata inflazione inoltre bisogna riconsiderare l'acquisizione di “competitività” a seguito della svalutazione, in quanto l'aumentato costo delle materie prime assorbirebbe una consistente fetta del vantaggio competitivo così acquisito.
  2. l'impatto sugli investimenti e sul sistema bancario. Dall'esperienza del passato risulta che i periodi di forte instabilità valutaria e di alta inflazione comportano un tracollo degli investimenti privati. I sostenitori dell'uscita dall'euro ne sono sorpresi (ma come? Le nostre industrie possono finalmente esportare, il nostro Paese ridiventa competitivo, e gli imprenditori non investono?). In realtà il meccanismo è facilmente comprensibile: tutti gli investitori esteri, così come quelli italiani con forti interessi al di fuori del nostro Paese, certamente non arrischiano il loro denaro investendo in una valuta molto instabile, destinata probabilmente a deprezzarsi, facendo perdere valore così a tutto l'investimento (quindi, nel caso in cui tornassimo alla lira, dovremmo dire totalmente addio agli investimenti dall'estero), mentre anche per gli imprenditori italiani la prospettiva di investire in una situazione di forte incertezza non è molto accattivante. E siccome non lo è neppure per i risparmiatori e per chi in genere detiene del denaro da investire, dobbiamo aspettarci anche una fuga all'estero dei capitali, perchè per quanto si scriva che adottando la lira improvvisamente, da un giorno all'altro, non ci sarebbe pericolo, questo scenario fa parte della fantafinanza (un cambio di valuta non avviene in modo repentino, e le voci sull'abbandono dell'euro si diffonderebbero giorni se non settimane prima), nonché una corsa, da parte dei piccoli risparmiatori, ai beni rifugio, per esempio l'oro. Guardiamo ora l'impatto sul sistema bancario. Esso verrebbe danneggiato sia dalla fuga dei capitali sia dall'inflazione (le banche si troverebbero in portafoglio molti titoli e prestiti a tasso fisso, mentre le loro fonti di finanziamento, che com'è noto sono tendenzialmente a breve termine, avrebbero tassi d'interesse in rapida crescita; per di più, anche i prestiti a tasso variabile costituirebbero un potenziale pericolo, in quanto, qualora i salari dei debitori non venissero adeguati all'inflazione, in larga parte non verrebbero ripagati e diventerebbero crediti inesigibili).
  3. la questione del debito pubblico. Ammettiamolo, dietro all'uscita dall'euro per molti si cela la tentazione di dichiarare la bancarotta e non pagare più il debito pubblico. Noi però dobbiamo sempre considerare questo: ciò che per lo Stato è un debito, per l'investitore, sia esso una banca, un fondo pensione, un'assicurazione o un piccolo risparmiatore, è il valore del proprio investimento. Ora, ben il 70% del nostro debito è interno, cioè è detenuto da intermediari e risparmiatori italiani, e quindi non è assolutamente da discutere l'idea di non pagare quella quota di debito, a meno che non si voglia il fallimento generalizzato del sistema bancario. Ma il vero problema non è il debito interno bensì quello estero (30% del debito totale, oltre 600 miliardi di euro). Quando si emettono titoli di Stato in una determinata divisa non si possono unilateralmente convertirli in un'altra (per il debito interno è diverso, lo si può benissimo fare forzosamente mediante un decreto) e, nel nostro caso, mantenere il debito estero in euro significherebbe il disastro, in quanto il suo corrispettivo in lire si ingrandirebbe a dismisura. Quindi, esattamente all'opposto del debito interno, quello estero non potrebbe essere mantenuto e la bancarotta sarebbe necessaria, a meno che gli investitori stranieri non accettino di convertire in lire, e quindi di svalutare, i loro titoli (cosa molto improbabile). Teniamolo bene a mente perchè è una cosa che ci permetterà di comprenderne molte altre
  1. l'impatto sulle esportazioni e l'interdipendenza economica europea. E arriviamo al punto focale, ovvero le esportazioni che secondo i ragionamenti semplicistici dei detrattori dell'euro dovrebbero essere notevolmente stimolate dal deprezzamento della nostra valuta sui mercati internazionali, che ci renderebbe più competitivi rispetto alle altre Nazioni sviluppate, in particolare i nostri vicini europei. Il fondamentale fattore di cui queste teorie mercantilistiche (peraltro purtroppo molto seguite negli ultimi anni in special modo dalla Germania) non tengono conto è che le nostre economie sono interdipendenti, strettamente legate tra di loro, cioè i Paesi europei non sono soltanto e principalmente nostri concorrenti sui mercati emergenti, ma sono soprattutto i nostri più importanti partners commerciali e clienti: ben il 60% delle nostre esportazioni è rivolto ai nostri vicini dell'Unione. E allora noi dobbiamo chiederci quali conseguenze avrebbe su questi Paesi la nostra uscita dall'euro: sia che essa provochi il collasso totale della moneta unica e il ritorno alle valute nazionali, sia che in qualche modo l'euro regga il colpo e riesca a sopravvivere anche senza l'Italia, sia che si passi a una moneta unica per i Paesi forti e alle valute nazionali per quelli più deboli, l'effetto sarebbe una notevole destabilizzazione politica, a cui l'Unione Europea potrebbe anche non sopravvivere, ed indebolimento economico, senza contare la questione del debito estero: la nostra bancarotta scaricata sulle banche, assicurazioni e fondi pensione degli altri Paesi dell'Unione provocherebbe forse dei fallimenti, certamente un aggravamento della recessione, nonché, con tutta probabilità, operazioni di rappresaglia e di boicottaggio delle nostre merci per costringerci a ripagare il debito. Per di più recessione in Europa vorrebbe dire problemi anche nei Paesi extraeuropei che hanno forti legami commerciali con l'Unione, come la Russia, gli Stati Uniti e la Cina. Conseguenza di tutto ciò: non una crescita, bensì un drastico calo delle nostre esportazioni.Quindi in conclusione nel breve periodo l'uscita dall'euro provocherebbe alta inflazione, ulteriore immiserimento delle categorie a reddito fisso, crollo dei consumi interni e degli investimenti, difficoltà per il sistema bancario, fuga dei capitali e crollo delle esportazioni. Un totale disastro. Ma nel medio-lungo periodo?
  2. le conseguenze nel medio-lungo periodo. Per capire se questi fenomeni siano destinati a scomparire in breve tempo o a permanere per diversi anni dobbiamo considerare due fattori che spesso non vengono citati esplicitamente durante i dibattiti sull'euro, ma su cui in realtà c'è un'idea molto precisa: la politica fiscale dell'Italia dopo l'uscita dall'euro sarà restrittiva (austerità) o espansiva? E la politica monetaria, cioè i finanziamenti che la Banca d'Italia eroga, stampando nuova moneta, allo Stato e alle banche? Ora, quando si afferma che senza l'euro noi saremmo liberi dai vincoli europei e potremmo riprendere la sovranità e il controllo della moneta il concetto sottointeso è che queste politiche debbano essere espansive (tra l'altro, dovendo riparare i bilanci delle banche danneggiati da inflazione e fuga dei capitali una politica monetaria espansiva sarebbe obbligata). Ma nel medio-lungo periodo dalla presenza di una forte spesa pubblica e di una espansione della base monetaria conseguirebbe un aumento strutturale dell'inflazione, che ridurrebbe ulteriormente la competitività italiana e costringerebbe a svalutare nuovamente la lira, in un circolo vizioso caratterizzato dalla cosiddetta stagflazione (ovvero la bizzarra combinazione di stagnazione e inflazione che secondo la teoria economica non dovrebbe esistere, perchè in tempi di stagnazione i prezzi non dovrebbero crescere) fino a quando il governo in carica non si renderebbe conto dell'insensatezza di queste politiche e chiederebbe un finanziamento al Fondo Monetario Internazionale, che porrebbe condizioni draconiane e ci porterebbe infine in un regime di cambi valutari fissi con le altre Nazioni, più o meno come è adesso l'euro, con la differenza che saremmo molto più poveri e che la nostra disoccupazione sarebbe nel frattempo diventata strutturale. Proprio un grande affare, non c'è che dire!
  3. ma la svalutazione è davvero poi così competitiva? C'è anche un'altra conseguenza di lungo periodo che la svalutazione competitiva comporta: ovvero gli imprenditori (o quantomeno la maggior parte di essi) tenderebbero a ridurre i già scarsi investimenti in ricerca e sviluppo e a curare meno la qualità dei propri prodotti contando sul fatto che svalutandosi la lira il loro prezzo risulterebbe comunque conveniente. E' avvenuto nel passato, accadrebbe anche nel futuro. Quindi nel lungo termine la svalutazione non è affatto vantaggiosa, anzi riduce la competitività di un Paese. A questo proposito possiamo aggiungere che l'Italia ha avuto i suoi periodi di grande crescita economica (l'epoca giolittiana e gli anni '50-'60) in concomitanza di cambi fissi tra le valute e di forte espansione del commercio internazionale (che la stabilità dei tassi di cambio agevola molto). Quindi, l'idea di diventare competitivi attraverso la svalutazione è un falso, una grande illusione che rischia di costare moltissimo agli Italiani e a tutti gli Europei.

Confronti inappropriati

Spesso i detrattori dell'euro citano vari esempi di altri Paesi allo scopo di dimostrare che non c'è alcun pericolo nel ritornare alla lira e che ciò anzi farebbe di noi il paese di Bengodi, dimenticando che ci sono profonde differenze tra la nostra situazione e quella delle Nazioni da loro citate. Prima di tutto costoro prendono ad esempio i Paesi appartenenti all'Unione Europea che però non hanno adottato l'euro, come Svezia, Norvegia, Danimarca o Gran Bretagna. Attenzione però a fare confronti affrettati: questi Paesi non sono usciti dall'euro, non vi sono mai entrati. E c'è una bella differenza. Cioè questi Paesi non hanno fatto un salto nel buio uscendo dalla moneta unica e facendosi attaccare quella nuova dalla speculazione internazionale. Inoltre queste Nazioni, in special modo Svezia, Norvegia e Regno Unito non sono affatto prive di materie prime.
Un altro caso citato (e abusato) dai detrattori dell'euro è quello dell'Argentina, che, secondo loro, ha vissuto dopo la uscita del peso dal cambio fisso con il dollaro e il default (che è costato miliardi ai nostri risparmiatori) un periodo di grande prosperità ed espansione, nonché di redistribuzione della ricchezza in favore dei ceti più umili. Insomma, un esempio da seguire. Occorre però precisare che la successiva crescita dell'Argentina è dipesa dal forte aumento sia del prezzo delle materie prime energetiche e alimentari che, al contrario dell'Italia, quel Paese possiede ed esporta in quantità (ed ecco anche perchè i prodotti argentini non sono stati boicottati, il mondo ne ha bisogno) sia della spesa pubblica, finanziata ovviamente a deficit (l'Argentina ha nuovamente accumulato un consistente debito pubblico). Nel frattempo, il Paese convive fin d'allora con un'inflazione altissima, mascherata senza grande successo da statistiche governative scandalosamente manipolate, e adesso che i prezzi delle materie prime stanno calando, l'economia è nuovamente entrata in crisi. Un modello da emulare? Direi di no.
Una riflessione un po' più accurata merita il confronto con la situazione italiana nel periodo 1992-1995, che dimostrerebbe secondo gli euroscettici che la svalutazione non comporta necessariamente inflazione. In quel periodo infatti, la lira fu costretta da una drammatica fuga di capitali (era l'epoca di Tangentopoli, il nostro deficit superava abbondantemente il 10% del PIL e si temeva che lo Stato italiano stesse per dichiarare la bancarotta) e dalla speculazione finanziaria che ne derivò ad abbandonare lo SME (un sistema di cambi fissi tra le valute dei Paesi della CEE), subendo una svalutazione del 20%. Nonostante ciò, l'inflazione si mantenne attorno al 5,5% sia nel 1992 che nel 1993. Tutto questo è vero, però chi cita quest'esempio trascura il fatto che, per evitare il fallimento di cui sopra, il governo Amato dovette varare in rapida successione due finanziarie “lacrime e sangue” da complessivi 123000 miliardi di lire, pari a quasi l'8% del PIL dell'epoca, che è come se ora si decidesse di fare una legge di stabilità da 115 miliardi. Inoltre anche la politica monetaria era fortemente restrittiva e tutto ciò ridusse la domanda aggregata e quindi l'inflazione. Perchè, intendiamoci, le politiche per contrastare quest'ultima esistono. Ma sono di “lacrime e sangue”.



In conclusione, il ritorno a certi trucchetti pre-euro non è più attuabile (ammesso che lo sia stato prima). L'unica soluzione ai problemi attuali di stagnazione e disoccupazione consiste in politiche di sviluppo all'interno dell'Unione Europea facendo valere con autorevolezza il punto di vista italiano, approfittando del nostro semestre di presidenza e spingendo i Paesi con i nostri stessi interessi, come la Francia, a premere in questa direzione.
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Lorenzo Manuguerra
GDTO


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