Una
delle caratteristiche degli scout più ammirevoli e meno conosciute è
il "servizio": molti li riconoscono solo per i pantaloni
corti durante l'inverno o il fazzolettone al collo, ma la realtà è
che ciò che li contraddistingue è la vocazione ad essere sempre
dove c'è sofferenza e bisogno di aiuto.
Oggi
in Italia e nel mondo tutti parlano del fenomeno dell’immigrazione,
ma in pochi si preoccupano di capire cosa sia veramente, superando
luoghi comuni e populismo. Andando oltre il buio. In realtà neanche
per gli scout è fondamentale, perché il loro compito principale
consiste nell’essere un sostegno.
Però
incontrando la vera sofferenza, e con essa la realtà, che molto
spesso viene taciuta o messa in secondo piano perché non desta
scalpore, riflettere è spontaneo. Ed è proprio quello che è
capitato a me andando in Sicilia a fare servizio in uno SPRAR
(Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati).
Prima
di partire mi sono chiesto quale fosse il senso di solo due settimane
di volontariato, perché le persone che arrivano non hanno bisogno di
animatori, ma di qualcuno che li aiuti a dimenticare la sofferenza e
a costruirsi una nuova vita. Poi però grazie alle attività
organizzate da noi volontari alcuni ragazzi sono riusciti a liberarsi
dal peso dei ricordi raccontando la loro storia, facendomi anche
capire che il vero contributo che posso dare è raccontare la realtà
da un diverso punto di vista. Il loro punto di vista, che mi ha
insegnato ad andare oltre all'apparenza e ai pregiudizi, e che spero
sia altrettanto di aiuto a chi legge. Primo pregiudizio tra tutti:
"gli immigrati vengono qui per fare gli attentati".
Falsissimo. Quasi sempre sono persone che scappano dai terroristi,
con i quali non hanno niente in comune. Neanche la fede. La risposta
più comune che mi hanno dato questi ragazzi quando ho chiesto se
riconoscessero come musulmani gli affiliati dell'Isis & Co. è
stata semplice ed esauriente: "chiunque uccida un uomo, è come
se avesse ucciso l'umanità intera. Chiunque ne abbia salvato uno, è
come se avesse salvato l'umanità intera" (Corano 5:32).
In
tandem con il binomio xenofobo immigrati-terroristi spesso si sente
anche dire "aiutiamoli a casa loro". Qui serve una
precisazione, perché il concetto di base è corretto, ma necessita
di un lavoro che vada oltre il semplice " rimandiamo indietro i
barconi". Un lavoro che tenga conto delle cause di questo
fenomeno. Corruzione in primis. Dei governi locali, che si
preoccupano esclusivamente dei propri interessi, al punto che in
alcuni campi profughi tutti i servizi (compreso l’accesso all’acqua
potabile) sono a pagamento.
Dei
funzionari di polizia, che arrestano (rapiscono) coloro che passano
per il deserto per poi chiedere un riscatto alle famiglie. Anche
delle ambasciate occidentali, i cui funzionari alle volte pretendono,
oltre alle tasse, tangenti per apporre i visti ai passaporti,
precludendo così a molti l'unica via sicura e legale per emigrare.
A
questo già grave problema si aggiungono le guerre civili e
soprattutto l'azione eversiva di gruppi terroristici come Boko Haram.
Questi spesso colpiscono il mondo dell’istruzione con omicidi e
attentati, rendendo difficile, a volte addirittura impossibile,
un’opera di educazione che potrebbe costituire il più rapido ed
efficiente aiuto per risolvere la crisi che causa il fenomeno
dell’emigrazione di massa.
Sul
podio dei preconcetti (quest’ultimo esclusivamente Made in Italy)
troviamo anche “agli immigrati lo Stato dà 35 euro al giorno
mentre agli italiani niente ”. Frase che, purtroppo, con il recente
terremoto si è sentita spesso, nonostante sia del tutto priva di
fondamento. Innanzitutto, per quanto riguarda i fondi, occorre
precisare che la maggior parte arrivano dall’Unione Europea, che li
affida ad ogni paese che accolga i migranti affinché li aiuti ad
inserirsi nella società. Questi fondi vengono utilizzati per pagare
stipendi ad insegnanti, medici e psicologi, oltre che per fornite
vitto e alloggio a i rifugiati, in modo che esperti si occupino in
modo professionale del fenomeno. Spesso, però, soprattutto in
Italia, tali risorse si perdono nei meandri della burocrazia, al
punto che la gestione di questi servizi (che avrebbe anche delle
ricadute sul mondo dell’economia in quanto fonte di posti di
lavoro) viene affidata a volontari. Per cui non è vero che lo Stato
“antepone” il mantenimento dei rifugiati ad altre azioni
politiche, perché si tratta di risorse finanziate da un fondo
europeo istituito appositamente per la gestione dei flussi migratori,
e quindi a se stante. Non è neanche vero che ai profughi vengono
regalati 35 euro al giorno (in realtà ne hanno al massimo 2.50 come
pocket money, ma non sempre è così), perché sono destinati a
organizzazioni, enti e associazioni che si occupano di progetti di
accoglienza.
Inoltre,
in risposta a chi sostiene che i migranti non paghino le tasse e
prosciughino il welfare, uno studio dell’OCSE (ripreso anche dal
Ministero dell’Economia italiano) ha dimostrato che in Europa le
famiglie immigrate hanno versato come imposte più di quanto non
abbiano beneficiato in servizi e sussidi. In Italia (fonte Roberto
Garofoli, capo di gabinetto del Ministero dell’Economia), l’8.9%
del Pil è prodotto dagli stranieri, che, con i loro contributi,
garantiscono anche la pensione a seicentomila italiani. Tutti dati
che fanno capire quanto gli immigrati non siano un problema ma una
risorsa.
Ma,
fortunatamente, accanto ad un’Italia che vede nei profughi solo una
minaccia, c’è un paese parallelo formato da tutto un sistema di
associazioni, organizzazioni ed istituzioni che cercano di prendersi
cura del problema e di risolverlo. Un sistema che a volte si rivela
addirittura migliore rispetto che in altri paesi esaltati per la loro
multiculturalità. Un sistema che può essere riassunto
nell’espressione “Italia buono”. Frase che ho sentito
pronunciare da un ragazzo, in Sicilia, mentre mi raccontava la sua
storia. Mi ha spiegato che dopo essere scappato dalla Siria a causa
dei bombardamenti, passando per la Turchia e i Balcani, è arrivato
in Germania. Tutto a piedi. Con una protesi alla gamba, che
ovviamente dopo 3000 km si è consumata e doveva essere cambiata.
In
Germania se avesse voluto ricevere assistenza medica per farsi
sostituire la protesi avrebbe dovuto pagare, così se n’è andato
(sempre a piedi) nei Paesi Bassi. Anche qui stesso trattamento.
Così
è venuto in Italia, dove appena ha parlato del suo problema con un
dottore, è stato accompagnato in ospedale, visitato e curato. Tutto
gratuitamente.
Se
questa storia dovesse avere una morale, allora sarebbe che anche con
tutti i difetti, a volte troppo rimarcati, il Paese della pizza,
della pasta e del mandolino continua ad essere un luogo in cui si
cercano di risolvere i problemi con grande solidarietà e senso
civico, nonostante i proclami di fantomatici “uomini-ruspa”. Un
paese che cerca di andare oltre il buio.
Stefano
Varesio
GDTO
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