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SFOGGIO DI MAESTA’ - Insuccessi passati e doveri futuri dell’Occidente nei conflitti islamici


Solidarité avec les frères français.

Il patriottismo dimostrato dai francesi in occasione degli attentati di Parigi non può che riempire di un perverso e geloso orgoglio chi di un sentimento tale mai è stato protagonista o spettatore. Noi italiani, ad esempio. E sempre noi italiani siamo stati più capaci di mostrare supporto e solidarietà ai nostri vicini, di quanto mai potremmo fare per noi stessi, al punto che una tale partecipazione in Francia non è passata inosservata, ed anzi accolta con commosso stupore.

Questa mancanza manifesta di patriottismo, che pure è una delle cause fondanti del disfacimento del nostro Paese degli ultimi vent’anni (disfacimento consumatosi, volendo, già dalla fine degli anni Settanta), però, una volta tanto potrebbe rivelarsi un elemento a nostro favore. L’inerzia che già ci ha reso tardivi nelle prese di posizione e disuniti e vulnerabili nel mantenerle potrebbe rendere, come già successo, difficile mobilitare il popolo italiano tutto e con effetto continuo, per scopi strumentali e/o propagandistici. Un esempio per il passato: durante il periodo fascista la comunità ebraica romana, la più numerosa all’epoca nel paese (mentre quella più antica d’Italia e d’Europa aveva sede a Venezia), fu ovviamente vessata da perquisizioni e, nel periodo di presenza nazista sul territorio, da deportazioni. Quello che spesso non si ricorda è che, in rapporto alla presenza demografica, in Italia la percentuale di vittime tra la comunità ebraica fu una delle più basse in Europa. Per quanto il fascismo avesse goduto di ampi consensi, molte persone non esitarono a dare rifugio ad ebrei perseguitati e gli stessi agenti romani, gli stessi poliziotti, alle volte avvertivano le famiglie ebraiche di un possibile rastrellamento, concedendo, così, un giorno o poche, preziosissime ore per cercare di mettersi in salvo.

Ecco, io ora vedo questo nostro indolente spirito di disaffezione alle istituzioni come un vantaggio temporaneo nel clima di rabbiosa tensione psicotica, che gli attentati della scorsa settimana a Parigi hanno diffuso in tutta Europa.

Hollande, comprensibilmente, ha voluto dare un simbolo energico di forza e presenza delle istituzioni ai cittadini. La società civile doveva sentirsi immediatamente protetta dallo Stato, oppure un’intera città sarebbe rimasta paralizzata nella morsa del terrore: stato di emergenza; soldati per le strade; moschee radicali chiuse; bombardamenti a tappeto su Raqqa. Le giuste misure adattate con fermezza nei giorni successivi all’orribile massacro.

In Europa il Daesh conduce una guerra di simboli e con i simboli si può contrastarlo. Per il Califfato poter sbandierare sui propri canali di aver piegato una città, di riuscire ad incutere timore nei propri avversari, è un atto di forza “astratto” (per quanto la violenza condotta per le strade della capitale francese possa indurre a supporne la concretezza) con il quale attrarre combattenti e fare proselitismo. Le misure adottate da Hollande vanno nel senso opposto, e cioè mostrare al mondo l’inutilità dell’attacco condotto: la Francia incassa e subito reagisce, mai piegata.

Ma, come si è detto, nella maggior parte dei casi di simboli si tratta, misure che nel lungo periodo lasciano il tempo che trovano; se prolungate, si fanno unicamente portatrici di una politica che solo butta fumo negli occhi dei cittadini, diventano inutile sfoggio di maestà. I francesi pare rispondano molto bene in questo senso e il loro patriottismo, tanto utile all’inizio, potrebbe rivelarsi fautore della sconfitta delle loro politiche alla fine.
 
La regione degli attacchi dell’Is in Europa non rientra certo in un futuro progetto di indebolimento e successiva conquista del continente. Semplicemente ci usano come bacino elettorale. Siamo i loro primi ufficiali reclutatori, se facciamo il loro gioco. L’Is sta cercando di ritagliarsi uno spazio territoriale definito. Per farlo, gli servono combattenti. E i combattenti vanno strappati a quella stragrande maggioranza costitutiva del mondo islamico che definiamo “islam moderato”. Ma, essendo più facile sottolineare le mancanze altrui piuttosto che le proprie virtù, viene naturale al Califfato dipingere noi come “persecutori”, prima di cercare di mostrarsi, esso stesso, come “salvatore” del mondo musulmano.

Mostrare i segni di un analfabetismo storico e lasciare che i bombardamenti (di nuovo) siano il solo vero strumento, unica nostra risposta effettiva, quale differenza produrrà tra noi e chi condanniamo? Se non dialoghiamo con gli imam moderati, se chiudiamo le moschee, vano si dimostrerà qualsiasi tentativo di poter controllare gli ambienti radicali di formazione dei terroristi. Il Daesh miete adepti soprattutto tra i giovani, qua in Europa. Ragazzi spesso provenienti da realtà di miseria, alcuni con piccoli precedenti penali e che proprio in carcere si radicalizzano. Se chiudiamo i loro unici luoghi di ritrovo e ascolto, avranno una sola scelta residua di parte da cui schierarsi. E stiamo certi che questa parte sarà sempre pronta ad accoglierli.

Mostriamo, invece, di essere la controparte positiva. Palesiamo le conquiste democratiche che abbiamo raggiunto, primi al mondo, dopo secoli di lotte ed intolleranza. La nostra guerra in primo luogo non può che essere ideologica. Possiamo inviare consulenti e aiuti tecnici, ma sul campo sono le potenze mediorientali e africane a dover giocare la partita decisiva. Il nostro ruolo dovrà poi essere quello, una volta abbattuto l’Is, di facilitare la corretta e libera transizione democratica nei paesi usciti dal conflitto. Perché in passato l’Occidente sempre ha messo mano diretta alle problematiche dell’Africa e del Medio Oriente, aggravandole tutte, senza eccezione. Lucrandoci, di solito.

Dalla decolonizzazione in avanti, l’Occidente ha trattato i vecchi territori come protettorati economico-finanziari. Si cercò di negare l’anima islamica dei nuovi stati nascenti, interpretandola come una minaccia, non capendo il tentativo che, in diversi casi, vedeva diversi stati coinvolti in un processo di possibile democratizzazione, ma che proponeva un modello diverso da quello occidentale (una corrente molto condivisa fu quella riformatrice del “socialismo islamico”, ad esempio). O ancora: i talebani nacquero da una affluenza di jihadisti da Arabia Saudita e Yemen nei territori afghani, non contrastata dalla Casa Bianca nei primi tempi(anzi favorita), perché si pensava di poterli indirizzare in chiave anti-russa, nella partita che da decenni vede contrapporsi le due potenze per il controllo della zona mediorientale. Sempre in quest’ottica troviamo il motivo del temporeggiamento delle potenze nell’attacco all’Is e la relativa serie di bugie raccontateci negli ultimi mesi: la Russia, inferiore tecnicamente agli Stati Uniti, non può che giocare di contropiede e aspettare che siano essi a commettere un errore. Obama ha temporeggiato, aspettando un aggravamento della situazione siriana, che potesse condurre ad una fisiologica caduta di Bashar al-Asad, così da conquistare l’ultima roccaforte filorussa in Medioriente, la Siria. Motivo per il quale Putin ha sbarcato truppe a Tartus, ultimo porto utile ai russi nel Mediterraneo, e ha iniziato i bombardamenti con una netta preferenza per le postazioni dei ribelli siriani, piuttosto che per quelle dell’Is.

A questo elenco di interessi geopolitici si potrebbero ancora aggiungere, tra gli altri, l’esistenza di una complicità finanziaria di Turchia, Arabia Saudita e Qatar verso lo Stato Islamico, nel silenzio delle potenze occidentali. Per non parlare dei ripetuti raid turchi contro i peshmerga curdi dello Ypg, gli unici fin’ora (insieme al gruppo assiro-cristiano Dwek Nawsha) ad aver opposto una seria resistenza alle milizie del Califfo e, "giustamente", quelli che più vengono vessati, rei di non aver supportato(si parla, in questo caso, dei curdi del Pkk) Erdogan alle ultime elezioni. Per il loro impegno e sangue versato ricevono, così, eccellenti rifornimenti di bombe, già innescate, dalla Turchia.                                           
                                  
Se tutto questo è vero ed è dimostrato, vera è anche la possibilità di cambiare, di aiutare un paese ed un continente a rinascere, non facendoci trascinare da quelle reazioni che, perché immediate, dirette, potrebbero sembrarci sensate.

Con un ultimo, commosso pensiero, dedico questo articolo a tutti i fratelli francesi rimasti uccisi. Lo dedico ai russi, fratelli anch’essi, morti sul Sinai, “colpevoli” di aver preso il volo sbagliato. Ma forte è anche il cordoglio nato dallo strazio delle morti arabe e africane. Forse non ne parliamo molto, perché percepiti diversi, lontani, appartenenti a realtà differenti. Come si è visto, invece, la violenza è universale nella famiglia umana, senza distinzione di bandiera alcuna. E dunque, dedico queste righe insufficienti alla memoria delle quaranta vite stroncate recentemente a Beirut. Agli studenti kenyoti da poco trucidati dagli shaabab somali all’interno della loro stessa università. Ai ventisette morti nell'hotel Radisson Blu di Bamako, in Mali. A tutti gli altri morti, infiniti, che ci sono stati e ci saranno.                                                                                                                                        
E dunque, per ora,
Solidarité avec les frères arabes, aux victimes innocentes qui viendront.

Simone Bigi
GDTO



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