Proseguono le nostre interviste. Questa volta parliamo di politiche culturali con un esperto del tema, il Presidente della Fondazione Teatro ragazzi e giovani Alberto Vanelli, già Direttore ai Beni culturali della Regione Piemonte e Direttore della Reggia di Venaria.
Dottor Vanelli, può dirci qual è
stato negli ultimi 15-20 anni il percorso che ha portato Torino ad
essere un'importante realtà dal punto di vista culturale, oltre che
una meta turistica?
Negli anni '90, le persone che si
trovano al vertice della politica, della cultura e dell'economia
torinese avvertono che la principale fonte di lavoro e benessere dei
torinesi, la FIAT, sta entrando in un processo di declino
irreversibile, quanto meno sul piano dell'occupazione, e che quindi
occorre dare alla città delle alternative. Con un accordo unanime,
anche abbastanza esplicito, le forze di sinistra al potere al Comune
fin dagli anni '70, ma anche la Regione governata dalla giunta Ghigo,
e poi l'Unione Industriale, i sindacati, le Università, le
Fondazioni bancarie, individuano il rimedio alla crisi della fabbrica
dell'auto nell'investimento sulla cultura e nella trasformazione di
Torino in una città attraente e turistica. Viene rispolverata la sua
storia di città regale, che era stata cancellata dalla vicenda
industriale e dalla fine infausta del Regno d'Italia, e viene messo
in luce il suo ricco patrimonio architettonico, urbanistico e
collezionistico, la tradizione teatrale, musicale e di arte
contemporanea, con un investimento complessivo di 1 miliardo di euro.
Inizia così un grande processo di cambiamento, che troverà il suo
culmune nel 2006, con le Olimpiadi, e poi nel 2011, in occasione
delle celebrazioni per i 150 anni dell'Unità d'Italia: due grandi
eventi che cambieranno completamente l'immagine della città. È
evidente che per affermare Torino come città di cultura c'è bisogno
di eventi che attraggano il pubblico e i turisti in diversi momenti
dell'anno: da qui l'idea della Fiera del libro, del Festival del
cinema, del Salone del gusto, o di grandi mostre nazionali e
internazionali. Il cambiamento di immagine è stato davvero
straordinario. Fino a pochi decenni fa, la gente considerava Torino
come una città grigia e piena di ciminiere, e magari un laboratorio
delle lotte sociali, dove si assisteva a scioperi continui,
manifestazioni, e negli anni '70 anche a gravissimi atti di violenza
politica. Oggi, secondo il New York Times, Torino si colloca al 31°
posto tra i luoghi del mondo da visitare nel 2016, unica città
italiana presente nella classifica. Lo stesso Sgarbi, in
un'intervista che gli ho fatto recentemente sulle pagine de Il
Torinese, ne ha parlato come della più bella città d'Italia, non
solo per il suo fascino architettonico, ma anche per la qualità
della vita che offre e per le tante cose da vedere: dai musei
rinnovati, alle mostre, ai concerti, alla musica, ad Artissima. Una
città ricchissima di cultura, che la fa sembrare più europea che
italiana.
E qual è la situazione attuale
della cultura, in un contesto di tagli ai finanziamenti pubblici e
pertanto di risorse scarse?
Questa nuova identità di Torino si
trova di fronte a un bivio. Da una parte, infatti, si rischia una
crisi, dovuta alla costante riduzione dei finanziamenti trasferiti
alle strutture culturali da parte degli enti pubblici: un taglio che,
rispetto a pochi anni fa, ha raggiunto ormai il 50% dei
finanziamenti. È anche vero, però, che lo spettro della crisi sta
favorendo un benifico processo di trasformazione e modernizzazione
delle istituzioni culturali, che stanno sempre più migliorando i
loro equilibri economici, riducendo le spese e aumentando gli incassi
derivanti dalle loro attività. Io stesso, recentemente, ho condotto
per Il Torinese una ricerca sul mondo torinese della cultura e il
quadro che ne emerge non è per nulla negativo. Prima la cultura era
un mondo gestito dal pubblico, con logiche poco attente agli aspetti
economici. Col tempo, un passo dopo l'altro, si è incominciato a
introdurre nelle iniziative culturali l'analisi del rapporto
costi/ricavi, ci sono stati degli avvicendamenti nelle strutture
dirigenziali, si è introdotta una grande attenzione alle modalità
organizzative e ai bilanci, tagliando i rami secchi, razionalizzando
le spese, riducendo il numero degli enti, e così via. Dalla ricerca
del Torinese, le grandi istituzioni culturali, dai grandi musei alle
fondazioni che gestiscono l'Egizio, la Venaria, il Polo Reale, la
Mole Antonelliana, i musei civici, ma anche i teatri Stabile, Regio,
Torino Piemonte Europa e il Torino Film Festival, risultano tutte
avere i bilanci in ordine e, pur patendo i gravissimi ritardi dei
trasferimenti pubblici, stanno operando più che dignitosamente.
Voglio dire, in sostanza, che se da una parte ha un po' rattristato
il mondo della cultura, la crisi economica ha avuto, per altri versi,
delle ricadute positive, portando alla razionalizzazione delle spese,
alla ricerca di risorse private, alla valorizzazione delle entrate
derivanti dalle proprie attività. Si è cominciato davvero a
costruire un'economia della cultura, e questo pone Torino
all'avanguardia rispetto alle altre città d'Italia.
I giovani e il mondo della cultura:
qual è l'attuale situazione a Torino e quali sono le criticità da
affrontare?
Torino è una città aperta ai giovani
attenti alla cultura. Se pensiamo alla musica elettronica, all'arte
contemporanea, ai linguaggi più diffusi nell'arte di oggi, possiamo
dire che a Torino esiste un'offerta che copre tutto, anche perché le
grandi istituzioni culturali, nel programmare le loro attività,
tengono sempre in considerazione il pubblico giovane. Mi pare, però,
che si stia realizzando una divisione molto netta tra consumo
culturale dei giovani e consumo culturale delle altre età, nel senso
che l'uso tra i giovani di computer e social network sta creando
tecniche, linguaggi, metodi di informazione e comunicazione molto
diversi da quelli tradizionali dell'organizzazione culturale. Molto
più lenti, nel loro sviluppo, sono invece i canali di riconoscimento
dei giovani emergenti – artisti, musicisti, performer, scrittori –
che si servono dei mezzi social. Non a caso, abbiamo molti
giovani torinesi che sono diventati noti a livello nazionale e
internazionale, ma che non vengono supportati dalle nostre
istituzioni culturali: non per cattiva volontà, ma per mancanza di
conoscenza. Uno dei compiti della politica attuale, soprattutto se di
sinistra, dovrebbe essere quello di andare alla ricerca di questi
talenti e trovare il modo di valorizzarli. In questa direzione va
l'idea di Sergio Chiamparino, dapprima in qualità di Presidente
della Compagnia di Sanpaolo, e oggi come Presidente della Regione
Piemonte, di introdurre una logica di bandi per sostenere gruppi,
artisti, autori che vogliono essere non solo fruitori, ma anche
produttori di cultura. Un indirizzo che sta perseguendo con grande
determinazione e intelligenza l'assessore alla Cultura Antonella
Parigi, impegnata nell'impresa, faticosissima, di rinnovare e
ringiovanire i protagonisti e gli assetti della vita culturale
piemontese.
Del mondo della cultura il grande
pubblico vede soprattutto i grandi eventi, ma questi potrebbero
trainare anche le piccole realtà culturali?
In genere un grande evento trascina
sempre con sé un contorno di eventi: quando fai la Fiera del libro,
per esempio, il tema del libro deve coinvolgere l'intera città,
l'evento deve trasformarsi in una festa urbana, diventando
un'opportunità di valorizzazione per scrittori, autori, ricercatori,
giornalisti, ecc... C'è però un rischio, che vedo soprattutto
nell'estate. Capita che intorno a un evento importante si affianchino
dei micro eventi mediocri, e questo non aiuta. Si ripropone il
problema di una selezione attenta, che non mandi allo sbaraglio, ma
che valorizzi in modo organizzato anche le strutture più piccole e
gli autori e i creativi che non si sono ancora affermati: è un po'
il tema di cui si diceva prima, e cioé il problema
dell'individuazione del talento. La classe dirigente torinese, negli
ultimi vent'anni, è stata veramente capace e ha sviluppato
moltissime idee. Il suo difetto è stato di non occuparsi del
passaggio delle consegne.
Questo, però, non riguarda solo la
cultura...
Ma certo! Riguarda l'architettura, il
business, e ovviamente l'università, che è diventata una realtà
gerontocratica. È una malattia che appartiene a tutta Italia. In
questo senso, al di là di tutto ciò che se ne può pensare,
l'ascesa di Matteo Renzi è l'espressione di un'esigenza di
cambiamento che secondo me è giusta. Neanch'io, in fondo – da
dirigente della Cultura – mi sono occupato di che cosa sarebbe
venuto dopo di me, e questa è una colpa che mi attribuisco e che
credo valga per tutti quelli della mia generazione –
amministratori, tecnici, intellettuali, docenti – che si sono
compiaciuti della propria capacità e del proprio successo,
trascurando i processi di rinnovamento. Anche se non è facile, il
Salone del Gusto deve essere l'occasione per promuovere i giovani
chef, la Fiera del libro deve promuovere i giovani autori,
SettembreMusica i giovani musicisti, e così via. Allo stesso modo,
occorre promuovere la presenza internazionale dei giovani torinesi.
Perché Rivoli, quando fa una mostra o un evento sull'arte
contemporanea, non l'accompagna con una presentazione di giovani
artisti italiani, torinesi, che affianchino anche con una certa
autonomia l'evento centrale, garantendo ovviamente la qualità? Su
questo, è bene chiarirlo, occorre fare molta attenzione. Io abito in
centro e in estate, sotto casa mia, in uno spazio adatto a ospitare
piccoli concerti, vengono diversi gruppi di giovani a suonare e a
cantare: ma si tratta di performance troppo di basso rango:
non ha senso offrire al pubblico quattro stonati che strimpellano,
come dilettanti allo sbaraglio. Se si vuole fare di Torino una città
aperta a musicisti, cantanti, attori che hanno delle capacità da
esprimere, occorre garantire un livello di qualità. Solo così
queste persone potranno essere valorizzate, e solo così Torino potrà
divenire un luogo di riferimento degli artisti.
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